di Riccardo Masini / 

Potrà sembrare strano un post del genere quasi alla vigilia del grande torneo di Undaunted: Battle of Britain previsto a Piana delle Orme il 21 Ottobre, durante i Wargames Days (a proposito, vi ricordo il modulo di iscrizione: https://forms.gle/pjUtk5csmhuvNi4N6), ma si tratta di un argomento che mi sta molto a cuore e forse proprio una competizione imminente è l’occasione opportuna per parlarne.
Come sempre, doverosa anzi doverosissima premessa: queste sono le mie personali opinioni, inclinazioni, aspettative e quant’altro sulla simulazione storica e l’esperienza che ricerco in essa… quindi prendetele come spunto di riflessione, perché ciascuno è liberissimo/a di vivere il gioco storico come accidenti vuole, cercarci dentro quello che accidenti vuole, aspettarsi da esso ciò che accidenti vuole. E nessuno, indendentemente dalla sua esperienza, ha il diritto di salire su di un piedistallo e mettersi a sentenziare su ciò che sia “giusto” o “sbagliato” nei singoli modi di vivere questo bellissimo hobby.
Ciò detto, io ho da tempo detto, scritto e argomentato che, nonostante tutte le apparenze e spesso le dichiarazioni di alcuni loro sostenitori, il wargame e più in generale il gioco di simulazione sono i giochi meno competitivi di tutti.
Questo perché certo, ci si “combatte” in questi giochi (non solo a cannonate… ricordatevi di Watergate, 1960: The Making of the President, 13 Giorni e tanti altri titoli storici non prettamente “wargamistici” che compaiono regolarmente nelle discussioni del gruppo), ma lo si fa in vista di obiettivi concreti, partendo da basi spesso ineguali (anzi, i veri appassionati di storia si arrabbiano se un gioco è “troppo bilanciato”)… ma soprattutto, si gioca per creare delle storie alternative, per vedere cosa succede sul campo, per immedesimarsi nelle nostre pedine e osservare le loro grandi imprese (o le loro grandi disfatte) dipanarsi sotto i nostri occhi. Non certo per dire alla fine: “Ho vinto!” o, peggio, per contare solo dei semplici “punti” astratti… si gioca per il viaggio, per l’esperienza del giocare… non per la destinazione, ossia la “vittoria” nel gioco che ne è sì “il” fine (apparente) ma anche “la” fine (reale).
Ma scusa, mi si potrebbe obiettare, non stiamo parlando di giochi a confronto diretto (solitari compresi, visto che giocate “contro” il sistema!), in cui appunto si compete per ottenere una vittoria cercando mille modi per danneggiare il proprio avversario e soddisfare i propri obiettivi?
Certo, questo bell’atteggiamento però non è competività, bensì competizione. E’ molto diverso, perché la prima è solo la propensione (talvolta spasmodica) alla seconda, il che fa dei giochi di simulazione un’esperienza poco competitiva, pur includendo molta competizione.
In che senso? Semplice, la competizione nel gioco di simulazione e nel wargame è “interna” al gioco stesso. Io non gioco contro X a Waterloo perché voglio sconfiggere lui, ma voglio sconfiggerlo perché io mi metto nei panni di Napoleone, il che comprende il desiderio che aveva Napoleone di sconfiggere Wellington (e viceversa). Certo, questo desiderio “storico” di vittoria entra in risonanza con il mio desiderio “attuale” di vittoria, in virtù della comune natura umana tra e Napoleone stesso… insomma, è una proiezione dal passato al presente, e serve al gioco stesso per andare avanti e impostare il conflitto, seppur simulato.
Ma, appunto, quel conflitto è prettamente simulato, non reale, e quindi io non provo un reale desiderio di sopraffare il mio avversario X… se non altro perché mentre Napoleone si giocava un Impero contro Wellington, io contro X non mi gioco un bel niente se non il tempo impiegato in una comune esperienza intellettuale ed emotiva. A duplice riprova di ciò, da un lato io posso trovare grande soddisfazione anche in una mia sconfitta (soprattutto se “mi sono battuto bene”), dall’altro io e X possiamo tranquillamente scambiarci i ruoli in una partita successiva. E soprattutto né io né X penseremo mai di essere realmente Napoleone o Wellington (o almeno si spera…). In tal modo, infrangeremo la proiezione della competizione (ogni gioco presuppone una sua fine, se non altro per tornare a giocare ancora) e rientreremo allegramente nel mondo reale. Insomma, al di là di un po’ di legittimo desiderio di prendere in giro gli avversari, ridendone tutti insieme, non cadremo mai nella competitività “esterna” al gioco stesso.
E i tornei? Allora sei contro le competizioni ludiche?
Tutt’altro! Anche se per mia natura non mi esaltano particolarmente e di certo detesto quei comportamenti “artificiosi” che talvolta si vedono in quei contesti (interpretazioni tendenziose delle regole, atti al limite del barare, distorsioni di ogni genere al fine di massimizzare la propria posizione in classifica, mancati “gesti di cavalleria” nell’evidenziare all’altro un errore materiale nell’applicazione di una procedura o di un tiro…), le trovo un’ottima opportunità per trovare avversari, provare nuovi giochi e sì, impararli durante il torneo stesso! Ecco lo spirito che ci muove come LudoStoria nell’organizzazione del Torneo di Undaunted: BoB, non certo proclamare un giocatore “superiore” agli altri, ma promuovere il gioco, farlo conoscere e spingere anche chi non l’abbia mai provato a impararlo, apprezzarlo e approfondirlo. La competizione ci serve ai fini del gioco, non ci lasciamo asservire ad essa, perché ciò limiterebbe la nostra libertà e come ben sappiamo o il gioco è totalmente libero, o non è.
Poi, è chiaro che una bella gara mette un po’ di sale in più nel piatto, è parte integrante dell’esperienza ludica e fa scaturire delle belle energie al tavolo: è giustissimo, ci sta! Tuttavia, personalmente non gioco per dimostrare agli altri di essere più bravo in questo o in quello, per fare sfoggio delle mie grandi capacità strategiche, per sentirmi superiore solo in virtù di come va una sessione di quello che resta a tutti gli effetti l’invenzione più meravigliosamente “inutile” della storia dell’umanità, ossia il gioco. Competo con gli altri per giocare bene, non gioco per competere: questo è per me confrontarmi in maniera sana ed efficace con gli altri, ossia essere “competente”… senza necessariamente essere troppo competitivo.
Insomma, per chiudere con le parole di un grande pensatore del passato: competens oportet esse, competitivus nefas!
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