di Riccardo Masini /
Uno dei tanti “indiziati” tirati in ballo ai tempi della grande crisi del wargame dei primi anni Novanta erano i giochi strategici per computer. Di colpo, chiunque poteva piazzare a casa propria un wargame fatto e finito, con i suoi begli esagoni, il setup fatto in pochi secondi, le partite che potevano essere salvate e tutte le regole del mondo gestite in automatico dal sistema. In più, e non era da poco, un avversario “informatico” sempre pronto a giocare con te, certo alle volte non proprio il massimo dell’acume ma costantemente a disposizione, a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno.
Non vi nascondo che quando mi trovai di fronte a questi giochi per la prima volta, ne rimasi incantato. Esplorai in lungo in largo i cataloghi delle prime ditte, in particolare la gloriosa SSI con Age of Rifles che tanto mi ricordava Rifle & Saber della SPI, l’operazionale Panzer General, lo splendido tattico Steel Panthers… e come dimenticare poi il Gettysburg di Sid Meier, le splendide opere di John Tiller, gli incredibili titoli della Talonsoft con i minivideo dei reenactor e la colonna sonora di Age of Sail che mi ero rimasterizzato su CD…
Bene, tutti questi giochi li ho provati e riprovati, assieme ai loro successori della Slitherine, alle serie Close Combat e Combat Command con tutte le loro personalizzazioni e mod e via dicendo, perfino per arrivare ai più giocosi Total War e similari. Ma c’è stato un problema che mi ha accompagnato con ogni singolo wargame per PC che ho giocato: mi è sempre sembrata un’esperienza estremamente coinvolgente e ricca di potenzialità… ma emotivamente vuota. Mi prendevano, entravo nel loop, mi ci “chiudevo” per settimane… ma poi ne uscivo e non mi sentivo minimamente arricchito. Bello, sì, ma niente di paragonabile alle incredibili suggestioni e ai profondi impatti emotivi che mi dava spostare due pezzi di carta su di una mappa, tirare il dado e confrontarlo con tabelle infinitamente meno sofisticate di quelle alla base dei wargame per PC… ma anche molto molto più soddisfacenti per me.
OK, era chiaro che mancava qualcosa. Ma cosa?
Sul piano razionale, mi resi presto conto che non riuscivo a sentirmi veramente partecipe di un gioco di cui non solo non conoscessi tutte le regole, ma non le applicassi a mia volta. E se anche avevo cominciato a studiare le combinazioni dei vari modificatori all’opera in quei prodigi del game design informatico, mi resi ben presto conto che erano semplicemente troppi e che quel lavoro non aveva molto senso visto che comunque sarebbe stato il PC a gestire tutto questo processo under the hood, ossia “sotto il cofano”. Ecco perché saltai sulla sedia quando lessi il Wargaming Handbook di Dunnigan e la sua critica ai giochi digitali perché composti solo da software e hardware, ma incapaci di coinvolgere il mushware (ossia il cervello) dei giocatori: in poche parole aveva sintetizzato bene uno stato d’animo che mi aveva tormentato per anni.
Sul piano emotivo… ok, c’era questa cosa che il wargame al PC era quasi sempre un solitario. Oggi con Vassal, TTS, Rally the Troops, Discord e similari è diverso, perché è relativamente facile trovare avversari, ma all’epoca eri tu contro il computer (o per i più malati, tu che vedevi il computer giocare contro il computer…). Quindi, il solitario sì lo prendevo come sfida, ma mi dava poco…
Per poi ricredermi totalmente quando mi avvicinai ai wargame in solitario non digitali, ma analogici! Ne avevo avuto un primo assaggio con The Peloponnesian War prima edizione comprato praticamente alla sua uscita, ma definire quel titolo così geniale un solitario non è proprio così lineare. No, qui sto parlando proprio di wargame in solitario veri e propri, neanche titoli da due giocati da solo “al meglio delle mie capacità”: roba come Pavlov’s House, Western Front Ace, Beneath the Med, gli States of Siege. Che mi piacquero subito da matti.
Di nuovo… perché?
Sul piano razionale, sì, giocavo totalmente da solo contro il sistema, ma questa volta il sistema non era un PC che gestiva tutto di nascosto, ero sempre io che applicavo le decisioni del bot e spostavo fisicamente i pezzi, quando non prendevo direttamente delle decisioni in caso di ambiguità. Quindi, non giocavo da solo, ma contro me stesso… il che è molto diverso.
Sul piano emotivo, quella manipolazione fisica dei pezzi e quell’applicazione intellettuale delle regole mi facevano sentire partecipe dell’azione del gioco e mi davano comunque la possibilità di vedere l’azione non solo nella sua interezza di ogni singola regola, ma anche dal punto di vista dell’avversario: i Tedeschi che assaltano la Casa di Pavlov, i biplani francesi che sparano al mio Fokker, i cacciatorpediniere britannici che mi cercano col sonar mentre mi avvicino ai loro convogli.
E poi, un’altra cosa. Le foto. I report. I video. Questo stesso articolo.
Spesso sento forti critiche all’esagerazione di condivisioni della propria esperienza ludica in rete, quasi che oggi importi più “mostrare” di giocare un titolo, piuttosto che giocarlo davvero. Certo, hanno un senso, perché bisogna sempre mantenere il focus sul giocare, piuttosto che sul far vedere che si gioca. Però, se vissute bene e con consapevolezza, queste condivisioni possono avere un valore di aggregazione e vicinanza con il resto della comunità di giocatori molto forte: rendono un solitario un’esperienza di sicuro individuale, ma meno solipsistica, non più chiusa in sé stessa. Gioco per condividere con altri il racconto che mi ha regalato quell’esperienza, le mie impressioni sul sistema, i miei consigli tattici, le mie perplessità… gioco sempre da solo nel momento della partita, però non più da solo dopo, invito attorno al mio tavolo i tanti appassionati che leggeranno di quegli eventi in un momento successivo.
Ecco, la modernità della condivisione dei contenuti ha mille difetti e presenta mille insidie, ma ha anche questo grande pregio: non ci fa sentire soli, neanche quando giochiamo da soli.
Non è cosa da poco.
Non vi nascondo che quando mi trovai di fronte a questi giochi per la prima volta, ne rimasi incantato. Esplorai in lungo in largo i cataloghi delle prime ditte, in particolare la gloriosa SSI con Age of Rifles che tanto mi ricordava Rifle & Saber della SPI, l’operazionale Panzer General, lo splendido tattico Steel Panthers… e come dimenticare poi il Gettysburg di Sid Meier, le splendide opere di John Tiller, gli incredibili titoli della Talonsoft con i minivideo dei reenactor e la colonna sonora di Age of Sail che mi ero rimasterizzato su CD…
Bene, tutti questi giochi li ho provati e riprovati, assieme ai loro successori della Slitherine, alle serie Close Combat e Combat Command con tutte le loro personalizzazioni e mod e via dicendo, perfino per arrivare ai più giocosi Total War e similari. Ma c’è stato un problema che mi ha accompagnato con ogni singolo wargame per PC che ho giocato: mi è sempre sembrata un’esperienza estremamente coinvolgente e ricca di potenzialità… ma emotivamente vuota. Mi prendevano, entravo nel loop, mi ci “chiudevo” per settimane… ma poi ne uscivo e non mi sentivo minimamente arricchito. Bello, sì, ma niente di paragonabile alle incredibili suggestioni e ai profondi impatti emotivi che mi dava spostare due pezzi di carta su di una mappa, tirare il dado e confrontarlo con tabelle infinitamente meno sofisticate di quelle alla base dei wargame per PC… ma anche molto molto più soddisfacenti per me.
OK, era chiaro che mancava qualcosa. Ma cosa?
Sul piano razionale, mi resi presto conto che non riuscivo a sentirmi veramente partecipe di un gioco di cui non solo non conoscessi tutte le regole, ma non le applicassi a mia volta. E se anche avevo cominciato a studiare le combinazioni dei vari modificatori all’opera in quei prodigi del game design informatico, mi resi ben presto conto che erano semplicemente troppi e che quel lavoro non aveva molto senso visto che comunque sarebbe stato il PC a gestire tutto questo processo under the hood, ossia “sotto il cofano”. Ecco perché saltai sulla sedia quando lessi il Wargaming Handbook di Dunnigan e la sua critica ai giochi digitali perché composti solo da software e hardware, ma incapaci di coinvolgere il mushware (ossia il cervello) dei giocatori: in poche parole aveva sintetizzato bene uno stato d’animo che mi aveva tormentato per anni.
Sul piano emotivo… ok, c’era questa cosa che il wargame al PC era quasi sempre un solitario. Oggi con Vassal, TTS, Rally the Troops, Discord e similari è diverso, perché è relativamente facile trovare avversari, ma all’epoca eri tu contro il computer (o per i più malati, tu che vedevi il computer giocare contro il computer…). Quindi, il solitario sì lo prendevo come sfida, ma mi dava poco…
Per poi ricredermi totalmente quando mi avvicinai ai wargame in solitario non digitali, ma analogici! Ne avevo avuto un primo assaggio con The Peloponnesian War prima edizione comprato praticamente alla sua uscita, ma definire quel titolo così geniale un solitario non è proprio così lineare. No, qui sto parlando proprio di wargame in solitario veri e propri, neanche titoli da due giocati da solo “al meglio delle mie capacità”: roba come Pavlov’s House, Western Front Ace, Beneath the Med, gli States of Siege. Che mi piacquero subito da matti.
Di nuovo… perché?
Sul piano razionale, sì, giocavo totalmente da solo contro il sistema, ma questa volta il sistema non era un PC che gestiva tutto di nascosto, ero sempre io che applicavo le decisioni del bot e spostavo fisicamente i pezzi, quando non prendevo direttamente delle decisioni in caso di ambiguità. Quindi, non giocavo da solo, ma contro me stesso… il che è molto diverso.
Sul piano emotivo, quella manipolazione fisica dei pezzi e quell’applicazione intellettuale delle regole mi facevano sentire partecipe dell’azione del gioco e mi davano comunque la possibilità di vedere l’azione non solo nella sua interezza di ogni singola regola, ma anche dal punto di vista dell’avversario: i Tedeschi che assaltano la Casa di Pavlov, i biplani francesi che sparano al mio Fokker, i cacciatorpediniere britannici che mi cercano col sonar mentre mi avvicino ai loro convogli.
E poi, un’altra cosa. Le foto. I report. I video. Questo stesso articolo.
Spesso sento forti critiche all’esagerazione di condivisioni della propria esperienza ludica in rete, quasi che oggi importi più “mostrare” di giocare un titolo, piuttosto che giocarlo davvero. Certo, hanno un senso, perché bisogna sempre mantenere il focus sul giocare, piuttosto che sul far vedere che si gioca. Però, se vissute bene e con consapevolezza, queste condivisioni possono avere un valore di aggregazione e vicinanza con il resto della comunità di giocatori molto forte: rendono un solitario un’esperienza di sicuro individuale, ma meno solipsistica, non più chiusa in sé stessa. Gioco per condividere con altri il racconto che mi ha regalato quell’esperienza, le mie impressioni sul sistema, i miei consigli tattici, le mie perplessità… gioco sempre da solo nel momento della partita, però non più da solo dopo, invito attorno al mio tavolo i tanti appassionati che leggeranno di quegli eventi in un momento successivo.
Ecco, la modernità della condivisione dei contenuti ha mille difetti e presenta mille insidie, ma ha anche questo grande pregio: non ci fa sentire soli, neanche quando giochiamo da soli.
Non è cosa da poco.
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